Lei era davanti
alla fontana d'angolo della piazza e cancellava il suo dolore sciacquandosi il viso in un
tiepido mattino di maggio fiorito in ritardo.
Non aveva niente con sé.
Le piaceva affondare le mani nelle tasche e camminare spedita, come se
là fosse diretta, come se là qualcuno la stesse aspettando impaziente di lei.
Aveva messo gli occhiali scuri a difesa dei troppi colori di quella giornata di sole così
poco discreto con lo sguardo smarrito di chi ha paura del mondo.
Ogni angolo della sua città le rimandava ricordi di un tempo e, per un attimo, si sentì
come stordita e cercò riparo nel vicolo buio, sotto il volto di mattoni, in quell'angolo
più consumato dagli anni, per proteggere il suo tremore improvviso.
Come allora e, forse proprio nel ricordo di allora, si lasciò sedere raccolta su sé
stessa.
Una giovane donna, passandole accanto, sorrise ed i suoi gesti lenti e
lo sguardo sereno, per quell'attimo le diedero pace.
Smise di tremare e ritrovò il giusto ritmo al respiro.
Poteva sentire, fuori, di là dal vicolo, i rumori di una qualsiasi mattina: passi veloci
di gente che ha fretta, voci concitate, autobus in partenza, ma lei si sentiva estranea a
tutto, tagliata fuori dal resto del mondo.
Chiuse gli occhi, respirò lentamente e risentì quella voce di donna ripetere calma:
"Se mi dai tre monete dorate, lanciandole in aria, ti dirò dove vive il
granduomo, lui solo conosce i segreti del cuore...".
Quella donna, quella voce, quel posto fuori dal tempo.
La casa gialla, la porta grande in fondo, ricoperta di edera scura, le finestre sempre
chiuse e dentro quella fresca penombra l'odore intenso di violetta.
Per un attimo riprese il tremore e desiderò solo fuggire veloce e tornarsene a casa, ma
nulla poteva fare.
Restò ferma al suo posto, richiuse gli occhi e la calma tornò.
La stanza che più amava dava sul
cortile, dietro la casa. Dalla finestra il suo sguardo dominava le colline tutte intorno e
il pergolato del glicine ronzava d'api e mandava un intenso profumo dolciastro.
La stanza era piccola e chiara, le pareti piene di prati fioriti che lei componeva petalo
su petalo nelle sere d'inverno.
Un letto sfatto e una poltrona accogliente in cui rifugiarsi col gatto soriano impigrito
dal caldo del giorno.
Poi, al calare del sole, la porta sbatteva e la donna saliva le scale cantando una vecchia
canzone.
A piedi nudi, leggera, apriva gli scuri e l'aria fresca del giardino fiorito riempiva le
stanze di voci duccello.
Così nella morbida penombra, apriva il cassetto del mobile scuro e prendeva la scatola a
disegni azzurrini, si sedeva sul tappeto ad arabeschi arancioni, e, togliendo lo scialle
dalle spalle chiarissime, sparpagliava davanti a sé quelle foto ormai ingiallite dal
tempo.