“ Le portavano in giro, parlavano con loro, le truccavano con maquillage e foulard a fiori per coprire le loro teste rasate. Erano silenziose, docili, avevano occhi grandi e scuri, incastonati in pallidi volti “. Sono le donne lobotomizzate .
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Lei, Janet, è riuscita a sottrarsi alla lobotomia, dopo dieci anni passati in ospedale psichiatrico con la diagnosi, sbagliata, di schizofrenia. Ha trent'anni, ed è grazie ad un premio letterario a cui ha partecipato con un libro di racconti, e ad un medico intelligente che arriva ad escludere la schizofrenia con cui l'avevano etichettata: "la paziente è una donna ipersensibile, che preferisce la solitudine ed è diversa dagli altri", che può lasciare l'inferno pieno di orrore in cui ha vissuto. “Scriverò della stagione del pericolo. Mi rinchiusero in ospedale perché si era aperto un grande squarcio nel banco di ghiaccio fra me e gli altri che guardavo allontanarsi alla deriva, insieme al loro mondo, su un mare color malva dove pesci martello dal languore tropicale nuotavano fianco a fianco con le foche e gli orsi polari. Ero sola sulla banchisa. Si era levato un vento gelido di tormenta e io mi sentivo intorpidita e mi venne voglia di stendermi a dormire e lo avrei fatto, se non fossero arrivati gli sconosciuti con forbici e borse di tela piene di pidocchi e flaconi di veleno con etichette rosse, e altri pericoli di cui non mi ero mai resa conto prima - specchi, camici, corridoi, mobili, metri quadrati, pezze intere di silenzio - in tinta unita e a quadri, campioni gratuiti di voci. E gli sconosciuti, senza parlare, innalzarono tende di calicò e si accamparono insieme a me “. Per lei scrivere è al pari di una qualsiasi faccenda domestica, un'occupazione quotidiana, come spolverare, cucinare, lavorare all'uncinetto, lavare i piatti, solo che lo scrivere viene messo al primo posto e sempre la scrittura per lei sarà passione, precisione e immaginazione. “Scrivo le mie parole in modo che siano perfette. Il tono, la forma e la consistenza delle parole devono essere il massimo della perfezione… narrativa e autobiografia non sono modalità così diverse fra loro; entrambe richiedono la grande abilità di forgiare, selezionare e comporre una serie di motivi e modelli che rappresentano, o danno l'illusione di rappresentare, la completezza. Non c'è superiorità di una forma rispetto all'altra; la superiorità o non superiorità dipende dalla passione e dall'immaginazione". Janet nasce ai confini del mondo, in Nuova Zelanda, la sua è una modesta famiglia: il padre ferroviere, fintamente rigido, la madre animata da singolari slanci poetici, due sorelle, una delle quali muore tragicamente, annegando, un fratello che ha problemi mentali. Così la vediamo nel meraviglioso film della regista Jane Campion: Un angelo alla mia tavola. “…Per quanto riguarda i colori, ho sempre pensato al rosso e al verde per il mio film. Il verde è colore della nuova Zelanda ed il rosso è il colore dei capelli di Janet…la natura e il cielo sono presenze vive per lei che si sente in rapporto intimo con loro…per questo non era infelice, nonostante tutto “. La Campion ha molto amato la scrittrice fin dai suoi primi libri letti con passione e partecipazione emotiva ed essendo interessata, da sempre, ai personaggi trascurati e abbandonati, si è fin da subito sentita molto coinvolta nella sua vita. “Ciò che mi attira nella gente che ha problemi è il fatto che abbia un atteggiamento attivo nei confronti della vita. Sento qualcosa di straordinariamente tenero in questo sforzo umano, uno sforzo sincero e non cinico di tentare di capire l'esistenza.” Lei, è stata davvero molto brava, è la parte oscura della vita di Janet che ci fa conoscere con il suo film che inizia con la madre che entra in una stanza tenendo per mano la sua bambina, la scena è in controluce. Solo la sagoma della donna si vede. Poi alla fine del film, quando Janet è adulta e fa ritorno nella sua vecchia casa, viene riproposta la stessa inquadratura: una figura adulta ( Janet), entra in casa, ripresa ancora in controluce. Noi vediamo solo il contorno del suo corpo:la sua sagoma, l'ombra. Janet per tutta la sua vita si è davvero 'sforzata'. A scuola è molto brava, scrive poesie, decide che da grande farà la poetessa, è timida, schiva e impacciata e guarda il mondo intorno a lei, senza fare rumore, scrutando in profondità e vedendo quello che gli altri non vedono. Così scrive: “ D'ora in ora più selvatica. Lo so. Lascia la famiglia per proseguire gli studi all'università e per un periodo insegna, ma la sua estrema fragilità si acutizza. L'immenso dolore per la morte di una sorella, annegata, e la lontananza dal suo mondo, la gettano nella disperazione totale: tenta il suicidio. Perennemente sospesa tra due mondi: il mondo reale e il mondo dell'immaginazione in cui per Janet vivono gli artisti,gli anticonformisti,i bambini e i pazzi. “La pazzia - scrive attraverso le parole di Vera Glace, protagonista di un suo romanzo - è il solo giorno di apertura al pubblico della fabbrica della mente. Possiamo camminarci dentro e attraversare, curiosare e ficcare le dita dappertutto, fare domande e restare incatenati di fronte agli innumerevoli ordini di estraneità che una volta intrecciati e trattati, impacchettati e distribuiti, non serbano alcuna somiglianza con i materiali originali, benché li contengano e siano parte di essi». A lei piacciono i fiori, ma preferisce le erbacce : “Io sto assolutamente dalla parte degli esclusi. E' un sentimento basso, ma io sto assolutamente dalla parte degli esclusi. Proprio come i personaggi delle mie storie". Quando lascia l' ospedale il suo cammino nel mondo continua e scrive, pubblica e viaggia: lascia la Nuova Zelanda e vive per periodi anche lunghi in Spagna, alle Baleari, in Francia, a Londra e negli Stati Uniti. Ama viaggiare, ma soprattutto adora stare sola. Fa ritorno nella sua terra nel 1974 e si stabilisce a Paluverston North, in un luogo isolato, lontana dalla gente. Nella scena finale di ‘Un angelo alla mia tavola', la ritroviamo racchiusa dentro lo spazio rettangolare ritagliato dal finestrino della roulotte che la ospita, vicino alla casa della sorella, mentre scrive, emozionata e felice di aver trovato la vera voce della natura. «E' la mia ultima storia. Metto tre puntini di sospensione con la macchina da scrivere, solennemente, così...”. Janet Frame è la più grande narratrice neozelandese dopo Katherine Mansfield. Per conoscere la sua opera: Un angelo alla mia tavola. Autobiografia (trad. di Lidia Conetti Zazo, Einaudi, 1999), la celebre autobiografia in tre parti dalla quale Jane Campion ha tratto l'omonimo film; La laguna e altre storie (trad. di Antonella Sarti, Fazi, 1998); Gridano i gufi (trad. di Laura Noulian, Guanda, 1994); Giardini profumati per i ciechi (trad. di Monica Pavani, Guanda, 1997); Cuor di formica (trad. di Marina Baruffaldi, Mondadori ragazzi, 2001). |